Storie di chi è rimasto a Sud dopo il lockdown
Quando i luoghi d’infanzia tornano a essere “casa”
di Giovanna Gallo (da lonelyplanetitalia.it)
14 ottobre 2020
La pandemia ha cambiato per sempre il nostro modo di vivere quotidianità, relazioni, viaggi. E il lockdown ci ha capovolto le priorità. In alcuni casi ci ha persino riportati al punto di partenza, in quella casa da cui, per noia, necessità o ambizione siamo fuggiti non appena possibile. Quelle valli, quei colli, quelle vie assonnate di paesini troppo piccoli o di città troppo provinciali oggi, agli occhi di molti, sono una nuova possibilità. C’è chi ha ricominciato da zero, chi ha accettato compromessi, chi, semplicemente, si è adattato. Per altri l’idea del ritorno è stato un fulmine a ciel sereno, una cosa inaspettata. Un pensiero che c’era, non ancora compiuto. Queste sono le storie di chi ha deciso di prenderla al volo, questa possibilità, ed è tornato nei luoghi d’infanzia per farne dimora fissa. Le raccontiamo per andare oltre le statistiche sul trend del South Working, oltre la retorica del Nord che opprime contro il Sud verace da cui attingere pace. Ci siamo chiesti perché si torna, perché si resta e cosa si è lasciati indietro. E abbiamo trovato una sola parola ricorrente: gratitudine.
In questi mesi di emergenza sanitaria, tra la nebbia dell’incertezza personale ed economica e le oscillazioni di un periodo storico traballante, si è parlato tanto di South Working, ovvero della possibilità di vivere al Sud Italia magari tornando nella propria terra d’origine, sfruttando le opportunità del lavoro agile e del nomadismo digitale. In molti, a quanto dicono le stime recenti – ragazzi, professionisti, ma anche famiglie con bambini – hanno preso la decisione a cavallo del lockdown, o subito dopo. Hanno lasciato case in affitto e coinquilini, appartamenti di proprietà, affetti stabili e congiunti acquisiti della città d’adozione e nell’estate 2020 sono ritornati nei luoghi della loro infanzia. Qualcuno ci è rimasto. Per molti era solo questione di tempo, per altri è stata un’epifania improvvisa.
Perché si torna a casa
Uno studio di Casa.it sui flussi immobiliari post lockdown ha fotografato la rivincita della provincia italiana, localizzata non solo al Sud (con Foggia in Puglia e Cosenza in Calabria al primo posto nelle ricerche di nuovi appartamenti) o sulle isole (la Sardegna e Sassari in testa) ma anche su altre traiettorie: il Veneto, ad esempio. E questo la dice lunga sul fatto che se si torna e si decide di restare, spesso lo si fa di pancia e di cuore e non solo per ragioni economiche o logistiche. Così come si sono modificate le abitudini di viaggio, sotto i nostri occhi sta cambiando anche la demografia. A Palermo è nato South Working, un hub pieno di giovani pronti a ripopolare le loro regioni d’origine: vogliono capire come questa migrazione inaspettata verso il Sud possa diventare una risorsa per l’economia di una porzione d’Italia che, nonostante i riflettori che le si sono puntati addosso, ha ancora diversi problemi da risolvere e non può essere mitizzata. Secondo le loro analisi non si spostano solo ragazzi o studenti con lavori instabili, ma soprattutto professionisti. Alcuni di loro hanno deciso di tornare a casa nell’estate 2020, lasciando per alcuni mesi le grandi città in cui abitavano per lavoro, e di sfruttare tutte le possibilità di quello in remoto. Per le famiglie con bambini invece è un banco di prova che punta alla stabilità: presume un cambio di abitudini, di scuole, di ritmi e non soltanto di flussi di lavoro. E aggiunge all’equazione una rete di supporto non indifferente oltre che uno stile di vita più slow se si torna in provincia.
Non è, ancora una volta, una battaglia tra meridione e settentrione anche se Milano, simbolo suo malgrado del declino della metropoli e della crisi della produttività in questo periodo di pandemia, ha la sua buona dose di problemi e le sue belle gatte da pelare, è innegabile. Secondo il Corriere, la città perde in media 2 mila residenti al mese da febbraio 2020. E nella narrazione di questa tendenza migratoria, è diventata la città da cui si fugge. Il punto però non è che le metropoli italiane o estere non hanno più il loro fascino o non possono più dare nulla, ma che quelle valli, quei borghi, quella casa da cui si è volati via appena si è potuto oggi, di fascino, ne hanno ben di più. Cosa è cambiato se è vero che i luoghi d’infanzia sono immutabili almeno nella testa di chi li ricorda? Queste sono le storie di chi è partito, di chi fuggito, di chi è tornato. In ogni traiettoria possibile, verso un punto che una volta era casa e che oggi lo è ancora, in modo totalmente inaspettato.
Francesca, da Milano a San Vito dei Normanni
Francesca ama la Puglia in modo viscerale e dello stesso amore ha venerato Milano, la sua città adottiva per 17 anni. Nel capoluogo lombardo ha studiato, ha fatto carriera nel settore gastronomico e digitale, ha avuto una bambina col marito, anche lui pugliese. L’Alto Salento dove è nata e cresciuta, tra Mesagne e San Vito dei Normanni in provincia di Brindisi, è stato per anni il rifugio temporaneo della sua famiglia, ma per periodi limitati. “A Milano sono diventata una donna: sono cambiata io ed è cambiata la città intorno a me. In diciassette anni non ho mai pensato di tornare a vivere in Puglia, anche se diventare genitori ha capovolto le nostre priorità di famiglia senza aiuti, in una città che spesso complica le cose a chi ha figli e non dà una mano a risolverle”. Per Francesca la pandemia ha avuto un ruolo fondamentale nel viaggio a ritroso verso San Vito, tra le campagne pugliesi. Il suo lavoro da freelance, il supporto dei nonni e la prospettiva di una vita vista mare per la sua bambina hanno fatto il resto. “A Milano sono grata: le passeggiate a Brera, le esplorazioni in bici, le mostre e la cultura, le sue librerie, l’offerta gastronomica sono pezzi della mia vita. A San Vito dei Normanni, dopo l’estate, però ho deciso di restare”. Nel brindisino Francesca e suo marito hanno piantato nuovamente radici: la San Vito che hanno lasciato dopo il liceo non c’è più, dice, ma certe cose sono per sempre uguali. “Gli amici di una volta, il mare d’autunno, il profumo della terra rossa bagnata di pioggia, le mandorle fresche”. Quello che oggi manca, lo cercherà con gli occhi di sua figlia.
Cinzia, da Torino a Cisternino
La bella Cisternino, borgo di 13 mila anime nella Murgia dei Trulli, è la casa di Cinzia. Di nuovo. Psicologa, figlia di panettieri cresciuta tra biscotti e farina, ha studiato per anni tra Bari, Valencia (in Erasmus) e Torino, mettendo poi radici nel capoluogo sabaudo. La terra che per anni le ha dato una sensazione di immobilità, il borgo adorabile ma sempre uguale, oggi è casa sua. Nel frattempo è cambiata lei, è cambiato il mondo intorno: “Torino, dopo tanto girovagare, è stata la città delle esperienze culturali, dello scambio intellettuale, della libertà di essere me stessa e degli amori travolgenti senza pregiudizi”. Nel racconto di Cinzia Torino è bellezza, è aria di montagna che ti schiarisce le idee e ti fa rimettere in fila le priorità di cosa vuoi davvero. A gennaio 2020, poco prima che le cose si mettessero male e già con in testa l’idea di fermarsi, ha accettato uno stage a Brindisi: poi il lockdown, la perdita del lavoro, l’incertezza l’hanno fatta ritrovare di nuovo al punto di partenza, a stretto contatto con la sua famiglia dopo anni di indipendenza. “Ma mi ha anche fatto rimettere tutto in quadro. Fare colazione con i miei tutte le mattine dopo tanti anni, passeggiare tra i campi, coltivare l’orto con mio padre, restaurare le porte di un vecchio trullo. Come avrei vissuto il lockdown nel mio appartamento condiviso in via Garibaldi a Torino? Non lo saprò mai. Ma è così che doveva essere”. Oggi Cinzia, insieme a un gruppo di ragazzi di Cisternino, collabora con la Pro Loco per promuovere il territorio. Le è scattato qualcosa in testa, come un click: oggi ciò che l’ha fatta fuggire lontano è una nuova prospettiva, è amore per le tradizioni del suo borgo. “Ero andata via senza saper fare le orecchiette o suonare l’organetto. Quelle cose che in adolescenza mi sembravano cliché inutili e antiquati, oggi sono terra fertile da coltivare, cose nuove da conoscere. Una cosa che mi ha insegnato Torino, dove ho capito che non voglio mai smettere di imparare”.
Virginia, da Milano a Pisa
Virginia ha lasciato Pisa a 23 anni per raggiungere Milano e sfondare nel mondo degli eventi. Quando è arrivata ha trovato una città con un contesto culturale e sociale allegro, frizzante, motivante. E ha avuto quello che cercava: studi stimolanti, un bel lavoro in un settore dinamico. Milano, dice, l’ha amata per come la faceva sentire: libera di essere qualunque cosa. “Dopo aver trascorso 3 anni a Milano, durante i quali sono sempre tornata almeno una volta al mese a Pisa, ho cominciato a sentire nostalgia della mia famiglia e dei miei amici di sempre. Della città che avevo lasciato per inseguire il mio sogno. È stato proprio in quel momento, nel pieno di questo periodo di domande che avevano già iniziato a girarmi in testa, che è arrivato il Covid”. Virginia ha rimesso in discussione tutta la sua carriera, ha accettato dei compressi per ricostruirsela con un nuovo punto di vista davanti: le strade della sua città natale. “Nei 3 anni in cui sono stata lontana, ogni volta che tornavo a casa avevo molte tappe obbligate: i miei genitori, mia nonna, le mie nipoti, i miei amici. Ero sempre di corsa, non riuscivo mai a godermi la mia terra, la tranquillità delle colline toscane o una semplice scampagnata domenicale. E anche il tempo trascorso con le persone care era sempre frugale, non era mai tempo di qualità, perché c’era sempre altro da fare, qualcuno da vedere”. Pisa è la città da cartolina, la meta insostituibile quando si fa tappa in Toscana, principessa indiscussa dei viaggi alla scoperta dell’Italia. Ma per chi ci vive è anche una città piccola, in cui si conoscono tutti e i locali in voga sono gli stessi di 15 anni fa. Niente è diverso, eppure per Virginia tutto è cambiato: “Sulle colline toscane il tempo sembra fermarsi, in un silenzio che riporta la vita ad un momento in cui non avevamo bisogno che fosse frenetica, in cui la tecnologia non ci dominava. Avevo bisogno di pace, ce l’avevo sotto il naso e non lo sapevo”.
Nicola, da Cork (e Bologna) a Soverato
Nicola è nato e cresciuto in Calabria, sul versante jonico che si affaccia dal lungomare di Soverato. Nel 2005, forte dei suoi studi in ambito turistico, si è trasferito in Irlanda con un passaggio a Dublino e, infine, un lavoro a Cork City nel profondo sud del paese, dove l’atmosfera multiculturale e un bel lavoro gli hanno regalato anni stimolanti. “A un certo punto però quei ritmi mi hanno annientato. Lavoravo senza sosta, guadagnavo bene ma non mi godevo nulla. L’unico svago era quello di rinchiudermi in un pub durante il weekend e bere dell’ottima birra irlandese: cos’altro potresti fare in un luogo dove piove per 310 giorni all’anno?!”. È stato allora che Nicola ha cominciato a provare nostalgia dell’Italia, una sensazione che lo ha portato a vendere le sue cose, prendere un periodo d’aspettativa e cominciare a esplorare molti paesi prima di approdare a Bologna. Tra i portici della città ha trovato l’amore e, insieme alla compagna Silvia, ha avuto un figlio in pieno lockdown. “Ho portato mio figlio in Calabria che aveva un mese, non appena i decreti hanno reso possibile gli spostamenti tra regioni. Abbiamo trascorso l’estate tra il mare e la collina, e siamo arrivati alla consapevolezza che non saremmo tornati indietro”. Tutti e tre oggi vivono in una casa vista mare, incrociando le attività da freelance – videomaker lui, titolare di un tour operator online lei – con la possibilità di rientri a Bologna che è rimasta importante per il loro lavoro. Della Calabria, dice Nicola, oggi ha riscoperto una bellezza che aveva dimenticato, che non vedeva più da tempo. “Quando ci sei dentro, quando ci vivi, sono cose che dai per scontate. Perché i luoghi non cambiano, siamo noi a cambiare, e cambia il filtro attraverso il quale osserviamo la realtà che ci circonda. Per fortuna”.
di Giovanna Gallo (da lonelyplanetitalia.it)