Storie sconosciute e grandi uomini del Molise
Da Montefalcone a Civitacampomarano. La contaminazione di Pirro Ligorio, l’architetto che definì rimbambito l’anziano Michelangelo
di Franco Valente – fb
29 febbraio 2024
Un papa, un architetto, un cardinale molisano e una zampa di leone in una fontana tra Montefalcone e Civitacampomarano.
La misteriosa fontana dei fauni.
La Fontana dei Fauni, che impropriamente viene chiamata Fontana sannitica, è una delle tante misteriose fontane del nostro Molise. Oggi si trova nella corte interna al Castello di Civitacampomarano, ma, per tradizione orale, pare sia stata trovata nelle campagne di Montefalcone.
La fontana mi ha particolarmente incuriosito e, in assenza di qualsiasi documentazione circa il luogo di provenienza (almeno per il momento) solo un esame stilistico può essere di aiuto per capirne l’origine.
Non ci vuole molto per affermare con assoluta sicurezza che la fontana non abbia nulla di sannitico.
Chi si assunse la responsabilità di questa originale, quanto erronea, definizione evidentemente era rimasto impressionato dal particolare aspetto di quei quatto fauni che sono simmetricamente aggregati, quasi fossero delle cariatidi, ad un fusto circolare che regge la base quadrata sulla quale una volta era poggiata una statua a tutto tondo o, molto più probabilmente, una grande calice.
Si tratta di quattro busti di fauni che sono rappresentati, prendendo spunto dalla tradizione classica romana, con le orecchie appuntite che fuoriescono da una lunga chioma divisa da una riga centrale e pettinata in maniera da concludersi con vistosi riccioli sulla fronte per due di essi o in forma liscia per gli altri due.
Le braccia sono costituite da volute ioniche che segnano l’inizio della geometrizzazione del busto che si appoggia su una semicolonna rastremata verso il basso che si conclude con una zampa vagamente leonina.
Nella tradizione romana il fauno, corrispondente del satiro della tradizione mitologica greca, è quella divinità che frequenta i boschi e le campagne.
È una composizione assolutamente originale e sicuramente estranea alla cultura artistica molisana. Specialmente a quella sannitica, dove non si ritrova mai un tal tipo di rappresentazione.
Per trovare il bandolo della matassa ci si deve spostare ad un’epoca molto più recente e cercare di capire chi possa essere stato il suo committente e conseguentemente il suo autore o la cerchia artistica da cui potrebbe essere stata prodotta.
La questione appare ardua se si tiene conto che l’opera non porta alcuna traccia di una dedica, di uno stemma o anche semplicemente di una data che già sarebbe un ottimo indizio almeno per collocare in una precisa epoca storica la sua realizzazione.
E poiché non conosciamo neppure il contesto entro cui la fontana era posizionata, non rimane altra via oltre quella di seguire l’analisi stilistica degli elementi che la compongono e rintracciare nella sequenza dei personaggi che hanno dominato la scena politica e religiosa del territorio di Civitacampomarano i quali, per la propria cultura o per l’ambiente da cui provennero, potrebbero avere avuto una parte determinante nella realizzazione di quella fontana.
Vi sono due elementi che possono aiutarci a risolvere, sia pure non definitivamente, il dilemma. Il primo è il contenuto mitologico dei personaggi che ne costituiscono la peculiarità. Il secondo è l’aspetto compositivo.
La scelta di soggetti mitologici rientra in quel clima culturale del primo rinascimento che caratterizzò soprattutto la scena artistica romana. Nella prima metà del XVI secolo a Roma furono chiamati ad operare i migliori artisti italiani, molti dei quali, dopo aver prestato la loro opera a servizio di papi, cardinali e principi, non disdegnarono di spostarsi in altre regioni con prestazioni artistiche di cui spesso si è persa traccia o che, altre volte, non conservano neppure gli elementi minimi per attribuire la paternità delle opere.
Nel caso della fontana di Civitacampomarano, seguendo un percorso che certamente è complesso per l’assenza di citazioni storiche o epigrafiche, la presenza della potente famiglia napoletana dei Carafa della Spina che ebbe parte importante non solo nella vita politica nel regno di Napoli, ma anche e soprattutto in quella religiosa con l’elevazione a papa di Giovanni Pietro Carafa con il nome di Paolo IV, ci può essere utile per tentare di dare una conclusione ai nostri interessi investigativi.
Vi è, però, un secondo elemento nella Fontana dei Fauni di Civita che in qualche modo stringe il campo per l’attribuzione dell’opera ad un particolare momento dell’arte romana: la presenza di semicolonne rastremate verso il basso.
Questi due elementi, messi insieme, portano inevitabilmente a Roma dove il massimo artista che fece un particolare uso tale segno architettonico fu Pirro Ligorio che nel suo repertorio non solo attinse a piene mani dalla tradizione mitologica classica, ma utilizzò con particolare efficacia il pilastro rastremato verso il basso che già Sebastiano Serlio aveva rappresentato nel frontespizio del suo trattato di architettura. (S. SERLIO, I Sette libri dell’architettura,Venezia 1537)
Gli esempi più noti di lesene rastremate verso il basso si ritrovano nelle cariatidi del loggiato di Villa Giulia a Roma e nei telamoni del prospetto del fontanone di Villa d’Este che Ligorio realizzò a Tivoli.
Ma alcune circostanze ci permettono di sostenere cha l’attività di Pirro Ligorio si sia intrecciata in maniera determinante con le vicende della famiglia Carafa.
Pirro era nato a Napoli dalla nobile famiglia Ligorio (o Liguori) del Seggio di Porta Nuova. Nel 1534 si trasferì a Roma dove continuò la sua attività soprattutto come decoratore di facciate.
Nel 1553 ebbe una notevole fama per aver pubblicato il “Libro su’ i Circhi e Anfiteatri”.
Nel 1557, come architetto rese i suoi servizi al napoletano papa Paolo IV (1555-1559) che gli commissionò la Fontana del Boschetto, nei Giardini vaticani, per un edificio che, essendo stato completato dal successore Pio IV prese poi il nome di Villa Pia o Casino di Pio IV.
Tra le altre cose è nota la sua lite con Michelangelo che, ormai anziano, fu definito rimbambito da Pirro Ligorio che era entrato ormai al servizio del papa napoletano.
Possiamo partire da questa circostanza per capire quanto fossero stretti i rapporti tra Pirro Ligorio e la famiglia Carafa non solo per le comuni origini napoletane, ma anche per gli apprezzamenti che i Carafa fecero della sua produzione artistica.
Giovanni Pietro Carafa era stato cardinale a Napoli fino al 1537, quando si trasferì a Roma. Sarà solo una coincidenza, ma nello stesso anno anche Ligorio si spostò da Napoli nella capitale a lavorare soprattutto per principi e cardinali romani.
Qualche anno dopo la morte di Paolo IV, nel 1567, mentre era papa Pio V, Carlo Carafa, nipote del papa Paolo IV e illustre esponente della famiglia napoletana, fu fatto vescovo di Guardialfiera.
È appena il caso di ricordare che la creazione di un tribunale nella diocesi rientrava nella politica repressiva di Pietro Giovanni Carafa che, prima di diventare papa, era stato il primo presidente del Tribunale dell’Inquisizione.
Ma la circostanza che più di ogni altra lega questa fontana al mondo romano e in particolare ai rapporti tra i Carafa e Pirro Ligorio è la complessa storia di Antonio Carafa, nato a Montefalcone il 25 marzo 1538 da Rinaldo e Giovannella Carafa, chiamato all’età di 15 anni come Cameriere Segreto di Paolo IV Carafa.
Rinaldo, detto “Carafello”, in seconde nozze aveva sposato Giovanna Carafa, figlia di Paolo (feudatario di Montefalcone) e di Elisabetta della Tolfa e in quella occasione divenne feudatario di Montefalcone.
Antonio Carafa rivelò immediatamente grandi doti letterarie. Fu allievo di Guglielmo Salneto che gli insegnò il greco e lo fece diventare presto uomo di cultura avviandolo a una grande carriera ecclesiastica che, però fu immediatamente interrotta alla morte dello zio papa.
Coinvolto in uno scandalo per aver protetto suo cugino il cardinale Alfonso Carafa, che aveva falsificato alcuni documenti per entrare in possesso dell’eredità del papa Paolo IV Carafa, fu perseguitato da papa Pio IV, suo successore, e costretto a rifugiarsi prima a Napoli e poi a Montefalcone.
In questo periodo si dedicò alla traduzione di importanti trattati dal greco in latino, trasferendosi anche a Padova da dove fu costretto a fuggire per tornare a Montefalcone.
Quando nel 1566 divenne papa Pio V, Antonio Carafa fu ampiamente riabilitato e nel 1568, dopo una revisione dei processi che lo avevano visto soccombente, fu fatto cardinale. Aveva solo 30 anni e da allora la sua carriera fu di altissimo livello, anche come diplomatico.
Ebbe un ruolo di rilievo quando divenne papa Sisto V che nel 1587 lo delegò a firmare un accordo con Filippo II al quale la Chiesa prometteva aiuti economici se avesse sostenuto una guerra contro l’Inghilterra.
Tra le altre cose, durante il papato di Sisto V, Antonio Carafa contribuì a sue spese al restauro della basilica di S. Giovanni.
Morì nel 1591 a Roma nella casa generale dei Teatini, la compagnia religiosa fondata nel 1524 da san Gaetano di Thiene e Gian Pietro Carafa quando questi, non ancora papa, era vescovo di Chieti.
di Franco Valente – fb