• 02/05/2025

Un altro modello

Il modello di sviluppo capitalistico ha causato la più inedita e grave crisi della storia

di Rossano Pazzagli (da La Fonte Feb/25)

5 Febbraio 2025

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Il modello di sviluppo capitalistico, basato sul dominio umano della natura, sulla crescita economica e sull’aumento dei consumi, ha causato la più inedita e grave crisi della storia: quella ecologica, cioè una profonda rottura del rapporto uomo-natura con preoccupante alterazione degli equilibri ambientali. Un modello alternativo e pronto all’uso ancora non c’è, ma nelle politiche e nelle azioni reali è possibile sperimentare pratiche economiche e sociali che sfuggano ai parametri cristallizzati del modello convenzionale e dominante.

Cominciamo dal territorio, il più importante frutto dell’incontro tra uomo e natura, di una coevoluzione che sul lungo periodo ha alimentato l’incessante processo di territorializzazione. Il territorio visto nella sua dimensione processuale di lunga durata, esito delle relazioni tra insediamento umano, economia, natura e cultura, deve acquisire una ritrovata centralità nell’ orizzonte della crisi climatica e più in generale ecologica. Io credo che una condizione essenziale per uscire dalle emergenze ambientali sia quella di inquadrare le varie trasformazioni o transizioni che dir si voglia entro un’ottica di cambiamento radicale di paradigma, cioè del modello economico e sociale che abbiamo seguito fin qui. L’attenzione verso il territorio e il suo bisogno di protagonismo possono essere strumenti privilegiati per uscire dalla logica distorta di uno sviluppo basato sulla crescita.
La crescita economica non è più in grado di assicurare il futuro delle nuove generazioni; la crescita si è mangiata il futuro. Per questo occorre un cambio radicale (radicale nel senso autentico della parola, cioè “andare alla radice”), sperimentando modelli basati sull’equilibrio, mentre il concetto di crescita si fonda inevitabilmente sullo squilibrio permanente e crescente (tra territori, tra generazioni, tra continenti…). Dunque, l’equilibrio al posto della crescita, la cooperazione al posto della competizione, il policentrismo al posto della concentrazione, una resistenza alla velocizzazione di tutto. Anche la tecnologia dovrebbe servire a questo: a diminuire i consumi, anziché aumentarli, in tutti i settori della vita; a superare la logica del profitto e dell’accumulazione; a vivere meglio, non a produrre di più per consumare di più. Sono queste le linee lungo le quali potrebbe e dovrebbe prendere forma un modello nuovo, più umano e più naturale al tempo stesso. Il mutamento di prospettiva è indispensabile come risposta alla crisi strutturale del modello globale-capitalistico, come superamento della logica del dominio antropocentrico e come rivendicazione di un progetto locale che rimetta in gioco le risorse, le vocazioni e le potenzialità dei contesti regionali, a partire da quelli che il modello di sviluppo contemporaneo ha relegato a condizioni di progressiva marginalità, come dimostra in modo lampante la situazione del Molise e di altre regioni assimilabili, le quali non potranno trovare pace né speranza nella perpetuazione del sistema vigente.

Occorre tenere conto che in Italia alla questione ambientale si aggiunge una grave questione territoriale, cioè l’insieme delle disparità territoriali tra Sud e Nord, campagna e città, montagna e pianura, entroterra e coste. Disparità che in assenza di politiche adeguate (o in presenza di politiche sbagliate) si sono inesorabilmente trasformate in disuguaglianze sociali. Ripartire dal territorio significa smettere di trattarlo come un pavimento, come supporto fisico su cui appoggiare in modo incessante le nostre suppellettili, o come ambito passivo dell’abbandono per cui ci si può fare di tutto, comprese le distese di pannelli fotovoltaici (anche nella forma beffarda del cosiddetto agrivoltaico) o le tempeste di pale eoliche. Non ci lasciamo imbrogliare da una falsa transizione ecologica, piegata in realtà a mire speculative. Respingiamo il consumo di suolo e il consumo di bellezza e adottiamo piuttosto forme compatibili di comunità energetiche, in grado di collegare piccola produzione e consumo di energia, a vantaggio della comunità locale, senza che nessuno ci faccia profitti. L’energia, come l’acqua, il paesaggio e altri servizi ecosistemici dovrebbe essere un bene comune, non una merce a vantaggio di pochi. Il territorio deve essere visto come soggetto attivo, protagonista, contenitore di patrimonio territoriale, fonte del nostro ciclo vitale basato sul cibo e quindi sull’agricoltura, con il paesaggio che è la sua dimensione visibile, espressione delle trasformazioni storiche, bene comune e fisionomia parlante del cambiamento (come scriveva il geografo Massimo Quaini): ci può raccontare quello che siamo stati, quello che siamo e perfino quello che potremmo essere e che non siamo ancora.

Il paesaggio e il territorio, dunque, come lettura e analisi della crisi ecologica, al di fuori delle retoriche della transizione a modello invariato. In questa direzione, il paesaggio assume anche il valore di strumento col quale intuire le vocazioni autentiche e immaginare le potenzialità del territorio che si deve governare. Una ritrovata attenzione verso il territorio e il suo bisogno di protagonismo, possono essere strumenti privilegiati per uscire dalla logica distorta di uno sviluppo basato sulla crescita e sulla competizione; la base di un altro modello.

Di Rossano Pazzagli (da La Fonte Feb/25)

5 Febbraio 2025

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