Una deindustrializzazione senza visione sul futuro
I momenti di crisi nell’industria europea sono stati molti sia nel corso del XX secolo che agli inizi del XXI, ma quello che viviamo attualmente preoccupa non poco gli analisti economici
di Umberto Berardo
8 Gennaio 2025
I dati Eurostat elaborati dall’Ispi ci dicono di una frenata della produzione che per la verità non interessa con la stessa intensità tutta l’Unione europea, ma colpisce soprattutto alcuni Paesi occidentali con una diminuzione del fatturato rispetto al 2019 in Germania di oltre il 9%, in Portogallo del 7%, in Francia del 5% e in Italia del 3,5% mentre al contrario si registra un aumento dello stesso in Polonia del 23%, in Grecia del 21%, in Belgio del 13% e nei Paesi Bassi del 9% con una evidente delocalizzazione dovuta a un processo di colonizzazione sulla proprietà di molte aziende europee da parte di multinazionali o di fondi d’investimento.
Le cause di un tale fenomeno vanno ricercate in fattori macroeconomici ma anche in ragioni di ordine strutturale, culturale e politico.
La crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina con un forte aumento del prezzo del gas sta incidendo notevolmente sui costi della produzione togliendo competitività alle industrie europee rispetto a quelle esterne.
Ci sono poi le pressioni della concorrenza cinese e di altri Paesi emergenti che inizialmente riguardavano prodotti a basso valore aggiunto, ma che ora si dirigono anche su beni di qualità togliendo così quote di mercato al nostro continente.
Pensare a misure protezionistiche, come ha fatto ad esempio sia pure in modo contrastato il Consiglio dell’Unione Europea, con dazi del 35% sulle auto cinesi importate potrebbe interrompere gli investimenti di Pechino in alcuni Paesi europei tra cui l’Italia e penalizzare le esportazioni verso la Cina.
Abbiamo poi una forte contrazione della capitalizzazione nell’industria con somme di denaro sempre più dirottate nelle rendite finanziarie o troppo precipitosamente nella transizione verde pensata dall’amministrazione Biden con l’Inflation Reduction Act verso tecnologie non inquinanti.
L’Europa non è mai riuscita a uniformare il sistema fiscale e questo rischia di creare squilibri tra Paesi dell’Unione che dispongono di capacità di entrate tributarie per gli interventi in economia e altri che ne mancano a causa dell’elevato debito pubblico, ma anche perché si è permesso a tante aziende di evadere o di avere la propria sede fiscale in nazioni diverse da quelle in cui producono.
Gli alti tassi d’interesse della Banca centrale europea certo non aiutano gli investimenti nel settore industriale penalizzati anche dalla speculazione finanziaria.
L’inarrestabile corsa al riarmo, generata dalle tantissime guerre in corso, sta portando i Paesi europei a investire miliardi del loro bilancio nel settore militare sottraendo in tal modo capitali all’economia civile e al Welfare.
La persistente competitività tra i diversi Stati dell’Unione nel settore industriale non porterà certo a vincere le sfide che il mercato globale pone.
Tra le cause che generano la deindustrializzazione giocano un ruolo fondamentale i bassi salari dei lavoratori fermi in Europa da quasi trent’anni e la diminuzione del reddito delle classi medie perché entrambi diminuiscono il potere di acquisto e contraggono il mercato interno mentre quello internazionale diventa sempre più selettivo e concentrato in tre grandi aree economiche: Nord America, Europa e Asia orientale.
Ci sono ancora tendenze che stanno rimodellando gli stili di consumo spostando la domanda dal possesso di prodotti a un loro utilizzo attraverso un servizio come avviene sempre più nel settore delle automobili con i sistemi di leasing che restano tuttavia molto costosi.
Ciò evidentemente riduce la domanda di acquisto.
L’aumento dei dazi annunciato da Donald Trump sulle importazioni verso gli Stati Uniti d’America sicuramente contribuirà a generare nuovi problemi per l’industria europea.
Se questa è la situazione in Europa, cala la produzione anche in Italia in diversi settori, ma i dati riguardanti le auto sono a dir poco drammatici perché Stellantis, unico produttore ormai da noi, ha perso nel 2024 quote di mercato del 10% mentre il marchio Fiat ha registrato una diminuzione delle immatricolazioni nel mese di dicembre del 41,1%.
Le nostre imprese che hanno operato sui mercati internazionali sono state sempre poche e di piccola o media dimensione.
La creazione dei distretti industriali negli anni Settanta del secolo scorso con aiuti da parte delle istituzioni aveva migliorato la loro competitività e nel 1991 ne furono censiti quasi duecento garantendo circa il 45% di occupati; la struttura delle aziende poi si è incrinata e verso la fine degli anni Novanta la crisi si è manifestata pienamente.
Grandi gruppi, frutto di un capitalismo personale o familiare, come Olivetti, Pirelli e Fiat non sono stati capaci di allargare le proprie dimensioni con alleanze razionali e strategiche perché il loro management non si è dimostrato sempre all’altezza compiendo talora scelte del tutto sbagliate anche nello stesso settore produttivo.
Non sono mancati neppure imprenditori che, richiamati dalle sirene della finanza o da guadagni inferiori ma sicuri, hanno preferito la speculazione finanziaria o investimenti nel terziario con particolare predilezione per i servizi di pubblica utilità fino al punto da considerare l’impresa industriale un’appendice faticosa, fastidiosa e meno remunerativa.
Si tratta di quello che tempo fa non ho avuto timore di definire un capitalismo decadente.
Oggi non mancano aziende in espansione, ma le basi produttive dell’industria italiana sono molto deboli per scarsi volumi d’investimento, per le dimensioni degli impianti, per una competenza non sempre elevata degli addetti, per scarsa innovazione tecnologica.
Il fenomeno della vendita di sempre più numerose aziende a capitali stranieri o di una loro delocalizzazione ci dice con chiarezza che non abbiamo capacità di attrarre investitori né di preparare nuova imprenditorialità autoctona.
Se restringiamo l’obiettivo dell’analisi alla situazione industriale del Molise, questa appare al momento assolutamente tragica.
Negli anni Settanta del secolo scorso, pur nella marginalizzazione delle aree interne, erano nati nella nostra regione dei poli di sviluppo di un certo rilievo.
Quello di Termoli era sicuramente il più rilevante, spinto soprattutto dallo stabilimento Fiat e dallo zuccherificio, ma ragguardevoli erano anche i distretti di Boiano nel settore avicolo, di Pettoranello del Molise nel tessile e di Venafro con le costruzioni meccaniche.
In poco più di un quarantennio non solo non si sono create nuove aziende, ma gran parte di quelle esistenti hanno chiuso e altre, come lo stabilimento Stellantis di Termoli, mancano di riconversione e rischiano anch’esse la rovina con migliaia di operai senza più un posto di lavoro.
La situazione descritta per il Molise è evidentemente parte della cronica questione del Mezzogiorno nel quale la mancanza atavica della capacità imprenditoriale autoctona e l’inefficienza delle classi dirigenti hanno dato spazio a un management inaffidabile e a una gestione clientelare delle stesse aziende che ne hanno determinato la crisi pesante che ormai credo sia sotto gli occhi di tutti.
Il sistema amministrativo regionale non è stato capace di salvare neppure aziende prospere come lo zuccherificio, la Pantrem o la SAM e oggi continua ad appagarsi di vaghe promesse come quelle che giungono dal gruppo Stellantis sul futuro dello stabilimento di Termoli.
La deindustrializzazione di cui stiamo parlando è ancora più grave perché appare senza una visione sul futuro da parte della politica che sembra incapace di pensare e realizzare un progetto di riorganizzazione non solo dell’industria ma dell’intero sistema economico a partire dall’agricoltura per guardare finalmente fuori dalle logiche neoliberiste non più unicamente al profitto ma alle necessità della collettività.
Provo allora a definire alcuni elementi che ritengo davvero indispensabili perché si possa pensare a una seria alternativa nella programmazione dello sviluppo economico.
C’è anzitutto la necessità di rinnovare la classe dirigente e manageriale affidando l’economia a persone competenti, oneste e affidabili.
Essenziale è sicuramente rinnovare e rafforzare l’istruzione e la preparazione professionale.
I settori produttivi devono operare in sintonia con un legame tra agricoltura, industria e terziario guardando intelligentemente alle richieste del mercato interno e internazionale.
È necessario ancora evitare la concentrazione produttiva con una forte egemonia industriale di alcuni territori come avviene soprattutto nell’Italia di Nord-Ovest individuando nuove aree che garantiscano elementi di alta produttività e di rapida commercializzazione dei prodotti.
Non sono più procrastinabili una diminuzione dei tassi d’interesse da parte della BCE, una definizione di sistema fiscale più equo a livello europeo e una difesa del debito pubblico di alcuni Paesi perché insieme all’attrazione di nuovi capitali possono essere funzionali a un aumento d’investimenti e a sostenere le aziende esistenti che manifestano difficoltà.
Difendere le nostre industrie dalla concorrenza di Stati emergenti significa dotarle di lavoratori con un’elevata formazione cercando anche una loro trasformazione digitale ma anche produzioni ad alto valore tecnologico ed evitando forme di concorrenza interna nell’Unione Europea.
Sicuramente, pur pensando a una transizione energetica nel medio-lungo termine, occorre individuare tutte le strade per diminuire i costi energetici che non sono assolutamente sostenibili dalle industrie europee.
Più che ai fattori dell’offerta è indispensabile guardare a quelli della domanda abbassando i costi dei prodotti, cercando mercati più dinamici ed evitando di ripetere gli errori creati ultimamente nel sistema automobilistico.
Per contrastare la concorrenza l’Europa deve favorire un sistema industriale a scala continentale con un mercato unico che diventi finalmente effettivo.
Non sarà facile, ma contrastare e ridurre la colonizzazione del nostro sistema industriale e commerciale da parte di grandi multinazionali esterne può essere funzionale per impedire la monopolizzazione delle attività e diminuire il fenomeno delle delocalizzazioni.
Il sindacato poi deve riacquistare la capacità di governare l’arretramento degli investimenti nelle aree interne come ad esempio in quelle del Mezzogiorno d’Italia.
Occorre infine riequilibrare la distribuzione della ricchezza impedendo che a pagare i costi siano sempre i ceti popolari.
Per fare tutto ciò non sono sufficienti le attuali politiche limitate agli incentivi, ma occorre una chiara programmazione che guardi lontano con la promozione di nuove tecnologie, la regolamentazione delle esportazioni e soprattutto il controllo dei diritti dei lavoratori a livello mondiale.
Sul futuro del Molise mi limito a dire che la sua popolazione ha bisogno urgentemente di rivendicare con un’azione decisa i propri diritti, di assumere iniziative economiche autoctone e darsi una rappresentanza a livello nazionale ed europeo costituita da molisani capaci e non da persone esterne alla regione.
Senza uscire dal clientelismo atavico purtroppo ancora assai diffuso e migliorare le proprie infrastrutture il Molise non riuscirà davvero ad avere lo sviluppo economico che il suo territorio merita.
Non si può sempre attendere; occorre al contrario far nascere una cittadinanza attiva.
di Umberto Berardo
8 Gennaio 2025