Agricoltura
Ma l’olivicoltura
italiana ha ancora un valore? |
Con la terribile raccolta delle olive del 2014 i nodi sono
arrivati al pettine di un comparto che ha bisogno ora di scioglierli tutti.
Nodi propri e nodi ereditati dalla crisi dell’agricoltura, che si sono formati
e ingrossati nel corso di tanti anni a causa di numerosi e pesanti limiti
politico – amministrativi, oltre che culturali.
C’è chi ha pensato di scioglierli puntando tutto sulla possibilità
di raccogliere olivo e olio in tutto il Mediterraneo affidando tutto alla
grande capacità di blending dell’industria olearia
italiana e, in seconda battuta, indicando al mondo dell’olivicoltura la scelta
degli impianti super specializzati spinti dalla Spagna che, a loro parere,
dovrebbero fare i miracoli. Altro che miracoli, così si distrugge solo quel
poco che è rimasto e che serve per ripartire!
Il pensiero diffuso fino ad ora è tutto rivolto alla quantità,
lasciando a quel poco che resterà dell’olivicoltura tradizionale, il compito di
fare la qualità. Uno spiraglio di luce sui produttori e i territori italiani che
riusciranno a rimanere ancora salvi dalla cementificazione. Per esempio,
lasciare alle Dop e all’unica Igp
il compito di rappresentare le produzioni locali da mettere a disposizione di
quei pochi fortunati amatori dell’olio che sanno del valore e del significato
del marchio Dop e Igp.
Tutto rientra nella logica propria di quelli che si sentono
padroni del mondo, o, comunque, del loro mondo, che è quella della
semplificazione che porta all’omologazione e all’uniformità. L’arte del
momento, soprattutto da parte di chi, sposando la moda del neoliberismo, pensa
solo al profitto e alla quantità come unico elemento di competizione che può
vincere sul mercato.
Questa loro arte di semplificare il mondo, lo stesso pianeta, e di
trasmetterlo a chi il mondo lo governa, sta tutto nella potenza del denaro,
accumulato e da accumulare!
Dentro tutto questa logica della semplificazione ci sono i
disastri, le macerie, i pericoli che il mondo vive ogni giorno e, ogni giorno,
sempre più.
L’Italia olivicola, quella delle colline e delle aree interne che,
bontà loro, possono anche rimanere, ma solo come elemento decorativo, è solo un
esempio della logica della semplificazione con la quantità unico obiettivo,
dovunque e comunque si possa raccattare.
L’olivicoltura con la sua agricoltura contadina, quella che ha
dato un fondamentale contributo alla notorietà e all’immagine di qualità che
oggi l’olio italiano vive nel mondo, e, c’è di più, allo stesso senso e
significato “qualità” dell’olio di oliva, fino a definirne i caratteri e
renderli punti di riferimento di tutti gli oli provenienti dalla frantumazione
delle olive.
Contro la tentazione della facile semplificazione serve davvero
avere chiaro il quadro rappresentativo della nostra olivicoltura e della nostra
agricoltura fondamentalmente contadina. La sola possibile da noi e, come tale,
da rafforzare, e non da cancellare con l’idea di una sua industrializzazione,
se si vuole dare una continuità a questo settore primario e parlare ancora di
agricoltura. Cioè dell’attività che da sempre dà cibo e, che da sempre, nutre
l’uomo, anche con il suo patrimonio di cultura, storia, tradizioni come pure di
ambienti e paesaggi, che vanno a definire e offrire la qualità e non solo, la
diversità .
Ecco, diversità, quale valore aggiunto della qualità, che
l’olivicoltura italiana, con il suo ricco patrimonio di biodiversità, può
mettere in campo, nel momento della globalizzazione dell’olivo, come una carta
di sicuro vincente. Un patrimonio di biodiversità olivicola che raddoppia
quello complessivo del resto dei paesi olivicoli, costruito da una storia
antica dell’attività agricola, ma, soprattutto, dai suoi differenti territori,
che già ora ci vede primeggiare e fare la differenza sui mercati. Basti pensare
soprattutto ai successi che vivono le nostre indicazioni geografiche, Dop e Igp, nonostante il vuoto
della comunicazione del valore e del significato di un marchio di garanzia del
consumatore – valido, oltretutto, per tutte le eccellenze europee - grazie al
rispetto del disciplinare di produzione e i relativi controlli.
Un aspetto, quello della biodiversità, che diventa decisivo per
competere, sia con le quantità che con le qualità offerte dal mercato.
Bisogna partire da qui, dalla qualità e dalla diversità che la
nostra olivicoltura è capace di mettere a disposizione del consumatore più
esigente, e non dalla quantità, se si vuole ridare all’olivicoltura italiana la
motrice più adeguata e, così, dare una risposta alla pesantezza della
situazione prodotta da un andamento climatico sfavorevole che ha caratterizzato
la raccolta delle olive 2015.
Non servono le semplificazioni, le facili scorciatoie perché non
portano da nessuna parte e, soprattutto, perché impercorribili domani, quel
domani che non è nella natura e nella mente del denaro. Serve, invece, fare una
respirazione a bocca a bocca al mondo dell’olivicoltura, dare spazio a un
dialogo e ciò è possibile solo se c’è il rispetto reciproco dei protagonisti
del confronto. Soprattutto la consapevolezza che, quando si parla di
territorio, del luogo che contiene ed esprime un insieme di valori e di
risorse, si sta parlando di un bene comune e non di proprietà di qualcuno.
Sta alla regia attenta dell’istituzione pubblica far capire il
significato di “bene comune” per non dare spazio a interessi personali e pensare alla propria terra.
Il dialogo, e solo il dialogo, è in grado di dare all’olivicoltura
italiana la possibilità di continuare, con la predisposizione di un piano e di
una strategia di marketing, a esprimere meglio il suo ruolo e a far capire che
essa è, ancora una volta, vincente sul mercato, per la qualità e la diversità
che riesce a esprimere con dovizia di particolari.
Questo fa dire che anche chi, curando soprattutto la quantità, ha
svolto un suo importante ruolo nella ricerca e conquista dei mercati e di
milioni o miliardi di consumatori, non può, ora più che mai, fare a meno della
motrice qualità e diversità. Si sa che il mercato globale ha bisogno di
quantità, ma dimenticare che il valore aggiunto di un successo vissuto che ci
ha sempre visto primeggiare nel mondo con le professionalità espresse dai
nostri confezionatori, stava nella qualità e nell’immagine del nostro Paese.
Tant’è che le nostre industrie olearie, fra le più conosciute al mondo, da
qualche anno sono patrimonio della Spagna.
Pensare bene al proprio ruolo ma anche al ruolo svolto e che
possono svolgere gli altri per fare squadra, sapendo che distinguersi con le
peculiarità a disposizione vuol dire farsi notare e, non solo, andare al
superamento delle confusioni vissute fino ad oggi sul mercato del consumo.
di pasqualedilena@gmail.com
Larino,
li 19 Gennaio 2015