Colletorto
Sant’Antonio Abate:
Il fuoco e la tradizione rivivono il 17 gennaio
La
Festa di Sant’Antonio Abate è una tradizione che si tramanda da secoli, che
trova le sue radici in una profonda fede per questo santo e che coinvolge
intere comunità. Antonio era un egiziano che nei suoi 105 anni di vita
decise di vivere nella Carità, sfuggendo alle tentazioni di Satana. Egli è
considerato il Protettore degli animali per eccellenza e invocato a tutela
del bestiame. La Sua effigie,in passato,era collocata sulla porta delle
stalle. Nella cultura popolare, Sant’Antonio Abate veniva raffigurato con accanto
un porcellino insieme a lingue di fuoco ai piedi e con in mano un bastone
alla cui estremità era appeso un campanellino mentre sul suo abito spiccava
una croce egiziana a forma di “T”, simbolo della vita e della vittoria
contro le epidemie. Anche in Molise, come in molte regioni italiane, il 16
o il 17 gennaio viene organizzata una manifestazione in onore del Santo.
Uno dei paesi molisani in cui la tradizione è ancora viva è Colletorto.
”
Il 17 gennaio, in onore di Sant’Antonio Abate, lunghe lingue infuocate di
tanti falò, nei vari quartieri del paese, rievocano una tradizione che si
perde nella notte dei tempi. Notte dei fuochi in onore di Sant’Antonio
Abate nel “Borgo degli angioini”. L’origine della tradizione si perde tra
le pieghe del tempo. Il culto dei falò infatti viene da molto lontano e si
mescola ad una serie di ritualità tipiche della cultura contadina. Un tempo
l’iconografìa del Santo, protettore degli
animali, era diffusa ovunque in campagna. Nelle masserie godeva di una
attenzione particolare, espressione di una devozione molto sentita. La sua
immagine era pertanto presente nelle stalle, tra gli animali domestici e in
campagna, per proteggere il sistema di un mondo povero, animato dalla
fatica giornaliera e da tanti sacrifici. La funzione protettrice del Santo,
in primo luogo, era destinata al porcello. Non a caso il maiale è presente
ai piedi della statua di Sant’Antonio Abate.
Nell’area
del cratere più profondo, a San Giuliano di Puglia, la sacra statua è
custodita ancora oggi all’interno della chiesa dedicata al Santo, che sorge
sull’omonima piazzetta, racchiusa ad emiciclo dall’antica porta ogivale,
recentemente restaurata. Una sorta di sacralità, pertanto, veniva affidata
al maiale che, nell’accezione odierna, ha decisamente un significato del
tutto scomposto ed ingiurioso. Nei secoli passati l’uccisione dell’animale
indicava per i gruppi sociali una evidente sicurezza alimentare, non sempre
disponibile tra i nuclei delle famiglie. Attività e vecchie figure
tradizionali avevano del resto una funzione ben precisa per assicurare il
rispetto e la stessa crescita dell’animale. Sulle ali della memoria si
ricorda il “porcellino di Sant’Antonio”, accudito da tutti, che girava per il
paese con un campanellino legato al collo. Il piccolo animale, una volta
ingrassato, veniva messo all’asta e il ricavato era donato alle famiglie
più bisognose. Nel cuore del cratere i tanti falò rievocano appunto questo
mondo lontano, dove il sacro e il profano danzano insieme, per lanciare non
pochi segnali. Un ossimoro che abbandona per un momento le sue
contraddizioni, per divenire una realtà autentica, schietta, genuina e
spontanea, consacrata da ogni gruppo sociale. Il linguaggio dei simboli e
dei valori religiosi più autentici, dunque, sale in alto, come un vortice.
Talvolta sembra riaffermarsi in una dimensione senza tempo. La festa è
ancora molto sentita. Un tempo il fuoco aveva un carattere propiziatorio.
Serviva per cancellare ogni brutta esperienza, per rafforzare la fede,
l’amicizia, l’identità del vicinato e l’ospitalità”. Un culto autentico,
radice forte dell’identità colletortese. Il
fuoco, nella sua composizione, ha la forma di un cono, terminante con una
lunga punta di legno, per ricordarci appunto l’aldilà. Anche in questo
lavoro di composizione l’iconografìa è
importante.
Il
cono, un solido, tra cielo e terra, che, ridotto alla figura geometrica del
triangolo, incarna il mistero di dio, uno e trino. L’emozione, al momento
dell’accensione, è divina e particolarmente emozionante. S’accentua con la
preghiera rivolta al Santo. Il falò sussurra a tutti i presenti con la sua
punta di quercia che, nella festa e, dunque, nella vita, è necessario
puntare il proprio cammino sempre in alto, nel regno della massima
beatitudine. La sua brace possiede una particolare sacralità. Un tempo
veniva prelevata e portata nel proprio camino per scacciare eventuali malefìci generati dalla magìa
nera. Intorno al fuoco si ballava, si gustavano i prodotti tipici, a gara
si saltava la brace e si faceva festa fino all’inizio del giorno
successivo. Una ritualità che persiste ancora. Alcuni fuochi danno vita ad
una memoria ancestrale alquanto espressiva. Sulla loro sommità è possibile
vedere pezzi di lardo di maiale. Appunto, quella parte dell’animale che,
nel medioevo, veniva collocata sulla pelle malata per curare il cosiddetto
“fuoco di Sant’Antonio”. Malattia dal bruciore dolorosissimo,
corrispondente, oggi, all’erpes Zoster. In questo
spaccato di tanti frammenti di storia il falò del Gruppo Storico Giovanna
d’Angiò e dei Cavalieri Angioini animerà la serata sulla settecentesca
scalinata del monastero che porta alla Chiesa di Sant’Alfonso dei Liguori.
Del
resto, come un tempo, quando, appunto, i fuochi venivano composti solamente
davanti alle chiese. Anche qui ricorre l’arcana simbologia. Tre erano i
fuochi, perché tre erano le chiese funzionanti all’interno del tessuto
urbano. La documentazione locale narra che alla fine dell’Ottocento, un
grosso falò, allestito tra la torre della regina Giovanna e il campanile
del Battista, generò un pauroso incendio che sconvolse non poche famiglie
del vicinato. Col mutare dei tempi cresce il numero dei falò grazie allo
sviluppo della meccanizzazione nel campo agricolo che ha sicuramente
facilitato il taglio della legna. All’imbrunire, nel pomeriggio, sarà il
parroco Don Mario Colavita a decretare con la
benedizione l’inizio della festa e l’accensione del primo falò. Poi gli
organizzatori e i gruppi giovanili s’impegneranno a difendere il carattere
di questo vecchio rito del fuoco, dalle successive accensioni fino allo
spegnimento totale. Molti principi di questo vivace mondo antico si
ripetono. Scandiscono ricordi e curiosità. Elementi pagani e propiziatori,
fede profonda, esigenze di socializzazione, consumismo, disagi, ansie,
insoddisfazioni, pesanti ristrettezze e nuove povertà dei nostri tempi , si
mescolano per rilanciare il linguaggio della tradizione. Il “giro dei
fuochi” è d’obbligo per il visitatore che raggiunge l’abitato. Ogni luogo
assume una veste inconsueta e suggestiva. E’ un piacere osservare le fiamme
scintillanti che salgono in cielo.
Il
rossore dei falò più grossi riscalda gli angoli e le facciate delle
abitazioni.. Nel cuore della festa, mentre si beve e si mangia, s’infiammano
emozioni vecchie e nuove. E’ la voce più bella della notte dei fuochi che
si spegne soltanto all’arrivo della nuova alba”.
di
Luigi Pizzuto
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