Fine
Del Regno
Perché è caduto il signore dei "sì", che ha trasformato i
cittadini in clienti
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Dopo 12 anni Michele
Iorio costretto a lasciare la presidenza della Regione: al quarto
tentativo i molisani gli hanno voltato le spalle, mettendo fine a un
"dominio" che a tratti era apparso immortale. La crisi
economica ha piegato il sistema di clientele da lui architettato per
beneficiare il maggior numero di cittadini, sia amici che nemici. Un
modello che ha garantito consenso a Iorio ma ha paralizzato la vita
pubblica del Molise, ferma a uno schema che non contempla sviluppo e
cambiamento. Abile navigatore della politica locale per molti anni,
negli ultimi mesi non ha saputo fiutare l’aria che tira, nè valutare come l’esaurimento di fondi pubblici e
posti di lavoro ha spuntato la sua più efficace arma elettorale.
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Basterebbe leggere i numeri, le
cifre secche e crude, per tracciare la diagonale incontrovertibile della
caduta, ascoltare il rumore sordo del tonfo: nel 2001 Michele Iorio
venne eletto governatore del Molise con 115 mila preferenze. Oggi i
suoi voti sono diventati 49 mila, il 58 per cento in meno. Ma
quella del “presidente” - come gran parte dei molisani continua a
chiamarlo per forza d’abitudine, riservando al suo successore il più
confidenziale nome di battesimo - non è soltanto la parabola aritmetica
di un regno durato dodici anni, un intreccio di linee rette e
curve che disegna il grafico dell’ascesa e del declino. Perché la sua non
è semplicemente una sconfitta elettorale. E’ la fine di un’era,
l’ultimo atto di una lunghissima stagione che si è identificata col suo
nome. La certificazione che un sistema è finito, che un modello ha
fallito. Che un certo modo di gestire il potere e intendere la politica è
crollato, e soltanto la storia futura dirà se per scelta autonoma della
coscienza collettiva o come conseguenza dell’irreversibile deterioramento
dei mattoni (i posti di lavoro, i finanziamenti pubblici, le nomine e i
privilegi) sui quali la fortezza è stata edificata.
E dire che sembrava una fortezza inespugnabile. E pensare che ci
sono stati momenti – tanti, prolungati - in cui quel regno è apparso
immortale. Michele Iorio: troppo abile, troppo esperto, troppo cosciente
delle debolezze altrui per temere rivali, dentro e fuori la coalizione.
Troppo capace, rispetto agli altri, di non perdere mai la lucidità e
l’autocontrollo per poter immaginare un passo falso.
E invece il passo falso c’è stato, ed è stato clamoroso. E’ stato
un peccato di presunzione: quando i segnali del suo declino cominciavano
a farsi visibili, lui ha creduto di resistere alla forza di gravità, ha
sfidato i partiti che lo sostenevano pensando di poterne disporre a
piacimento come aveva fatto per venti anni, s’è illuso di essere l’unico
artefice del proprio successo, indipendentemente dal sistema di potere
che a lui si era sempre riferito.
Quest’estate, quando era ormai lampante che l’apparato del centrodestra
dubitava dell’eternità del suo regno, Iorio convocò una adunata all’aria aperta.
Addosso una polo azzurra, informale, come guanto di sfida: io contro
tutti. Era il 3 luglio, e il suo teatro è stato il prato verde della
Piana dei Mulini, vicino Colle d’Anchise.
Lì s’è consumata la prova di forza per dire alla nomenklatura
che non aveva bisogno d’aiuto, né di spinte, che gli bastava quel
consenso di eletto che i nominati nemmeno potevano sperare di
raggiungere.
Sembrò la zampata vincente di un leone che gli opinionisti davano
per sfinito e in disarmo e che invece trovava nuova energia e nuovi
argomenti per procrastinare il proprio dominio. Sembrò, ma non era:
dietro l’apparenza di quella vigorosa “ridiscesa in campo” si nascondeva,
e nemmeno troppo discretamente, l’incapacità di interpretare i segnali
che il Molise gli stava mandando da tempo. Come se non si fosse
neppure accorto, per esempio, del ceffone che appena due mesi prima gli
aveva riservato il suo fedelissimo elettorato di Isernia, che alle
elezioni comunali aveva bocciato senza equivoci la candidatura della
sorella Rosetta a sindaco della città pentra.
La sorella di uno degli uomini più potenti del Molise, potente a sua
volta, battuta e umiliata da un anonimo esponente di centrosinistra. Non
è difficile immaginare che in altri tempi, nell’epoca fiorente del regno,
Ugo De Vivo sarebbe stato condannato a una sonora sconfitta, e
l’imposizione della candidatura della propria sorella da parte del
Presidente sarebbe stata vista dai molisani con occhi accomodanti,
perfino benevoli, accettata con una scrollata di spalle e una croce sulla
scheda, inevitabile appendice della necessità riconosciutagli di occupare
attraverso il piazzamento di uomini e donne fidati (meglio ancora se
della famiglia) le caselle determinanti della mappa del dominio.
Poiché è stata questa compiacenza tutta molisana, accompagnata a una
straordinaria disponibilità a depositare nelle mani di Michele Iorio il
destino di un territorio e dei suoi abitanti, la garanzia principale
della eccezionale durata del regno. E l’errore di Michele Iorio,
abituato a sentirsi legittimato proprio da questa compiacenza pigra, non
è stato quello di aver imposto la candidatura di Rosetta (aveva già
imposto altri parenti in altri posti), ma di non aver saputo fiutare
l’aria, come spesso accade ai sovrani che progressivamente si discostano
dalla realtà. Di non aver compreso che stavolta la strategia di
conservazione del potere sarebbe stata scambiata per il capriccio di un
monarca invecchiato. Quell’ostinazione, perseguita in piena caduta della
seconda repubblica fondata sulle parentopoli,
proprio mentre Umberto Bossi affondava per aver anteposto gli interessi
della famiglia a tutto il resto, ha avuto l’effetto di denudare la
debolezza del re, favorendo cupi paragoni fra le sue decisioni e le
arroganti bizzarrie di despoti tipo Ceausescu o Marcos. Che pure con
Iorio, va ammesso, ben poco hanno a che fare.
Del resto capire senza margine d’errore che tempo fa, annusare l’aria che
tira per anticipare gli eventi e dirottare la catastrofe, sono doti
rarissime, che fanno la differenza tra un uomo politico e un condottiero
d’alto rango. E Michele Iorio, che pure è un politico di razza, specie al
confronto di molti suoi sodali e ex sodali, non è mai stato un
condottiero d’alto rango.
E’ stato il fulcro inamovibile di un territorio popoloso quanto un
quartiere di Roma, questo sì. Per più di un decennio ha rappresentato
ogni cosa, s’è posto sopra ogni cosa. Governatore, Commissario del
terremoto, Commissario della Sanità, padre padrone prima di Forza Italia
poi del Pdl, unico interlocutore credibile per
Roma, riferimento dei berlusconiani pur non essendo berlusconiano,
controllore incontrastato del centrodestra locale, manovratore delle
trame segrete col centrosinistra. Non c’era nomina pubblica senza il suo
consenso, non c’era investimento senza il suo placet, non c’era
assunzione senza il suo benestare. Se Iorio diceva no era no, se Iorio
diceva sì era sì. Ma lui, sapiente sornione di stirpe scudocrociata, ha
detto quasi sempre sì. Accontentare tutti per garantirsi la loro
riconoscenza e la loro non belligeranza, anche i nemici, coi quali è
stato generosissimo di contentini. Ha scelto primari e amministratori
pubblici, ha compilato liste elettorali e stabilito organigrammi,
talvolta ha perfino deciso chi doveva essere il suo avversario.
Nei dodici anni del suo regno ha forgiato il Molise a sua immagine e
somiglianza. Con la conseguenza che mentre il mondo intorno subiva
drastici e drammatici mutamenti, la nostra regione si è pietrificata
nello schema dei vecchi maestri della Dc meridionalista per i quali la
politica non è visione del futuro, progettualità, motore di sviluppo, ma mediazione,
manutenzione dello status quo, creazione di una rete di clientele,
utilizzo del denaro pubblico per garantire lunga vita ai manovratori
del potere in cambio di brandelli di assistenza elargiti al maggior
numero di clientes. E’ la politica di chi si
accontenta di rendere immutabile la realtà, ma è una politica che può
funzionare solo in tempi di vacche grasse. Finiti i soldi, non rimane
altra via d’uscita che il declino.
I tempi di vacche grasse, a Michele Iorio, li ha regalati (anche) il terremoto
del 2002. E’ terribile a dirsi, ma è così. S’era insediato da appena
un anno alla Regione quando ci fu il sisma che seminò lutto e
disperazione a San Giuliano di Puglia e in alcuni paesi vicini. Le cose
in Italia andavano bene, c’erano soldi a bizzeffe, specie se rapportati a
oggi, e sul Molise rotolò una montagna di danaro. Cinicamente si potrebbe
dire che era una grande opportunità. Invece è stata soltanto l’occasione
per rimpolpare il fronte delle clientele. Distribuzione irragionevole
di fondi, favoritismi ai furbetti del contributo di ristrutturazione
(molto più numerosi ed elettoralmente più importanti dei terremotati
veri), elargizione di benefici alla più vasta area possibile di
Comuni ed Enti Pubblici, creazione di una casta di privilegiati. Tutto
fatto un po’ così: alla carlona, con faciloneria, affidando la
realizzazione di opere e iniziative a persone prive di requisiti,
mediocri, la cui unica virtù era l’assoluta fedeltà al capo.
Nella sanità è andata addirittura peggio. Usata come un territorio
di utilità personale: la sorella, il fratello, il cognato, i figli,
parenti vicini e lontani, amici e amici degli amici piazzati nei posti
strategici e meglio remunerati in spregio alla meritocrazia. Indifferenza
indolente nei confronti dell’atavica inefficienza del sistema ospedaliero
locale che – anzi – è andata ulteriormente peggiorando. Nessuna
attenzione all’urgenza di rendere davvero efficace il principale apparato
di assistenza sociale che da solo brucia oltre il 70 per cento del
bilancio regionale.
L’incapacità di fare scelte impopolari ma essenziali per il territorio
nel momento di passaggio dal benessere alla crisi e la ferrea
disciplina nel praticare l’arte del bisogno sospeso (promettere cento
e elargire 40 per non soddisfare la necessità e non perdere il consenso
elettorale alla prossima campagna) che alla fine ha rasentato livelli
di ottusità anacronistici e negazione dei problemi reali: sono questi
i peccati capitali del sistema Iorio, o Modello Molise che dir si voglia.
Uniti alla sistematica
interpretazione ad personam delle regole della
buona amministrazione e perfino delle norme di legge. Non è un caso
se, consultando la biografia di Michele Iorio su Wikipedia,
ci si imbatte per ben tre volte nell’espressione «vizi di forma».
Nel ’94 la sua prima candidatura per il Parlamento venne bocciata per un
difetto formale nella presentazione della lista. Nel 2000 si appellò egli
stesso a un vizio di forma per invalidare le elezioni regionali che lo
avevano visto sconfitto nel confronto con Giovanni Di Stasi. Lo scorso
ottobre i vizi di forma hanno annullato le elezioni del 2011 che gli
avevano regalato – seppur di misura - la presidenza del Molise per la terza
volta consecutiva. E ancora più di recente sono stati i vizi di forma che
hanno escluso la lista del Pdl (il suo Pdl) dalla circoscrizione di Isernia (la sua Isernia)
rendendo monca in partenza la già difficilissima competizione con Paolo
Frattura.
Coi vizi di forma è iniziato il regno di Michele, coi vizi di forma si è
chiuso.
Ai vizi di forma però si sono aggiunti i vizi di sostanza. Non
tanto suoi, quanto dei personaggi di fragilissimo spessore dei quali s’è
circondato. Iorio non avrebbe potuto essere Iorio senza la servile
compiacenza di chi gli è stato intorno, lo ha sostenuto, ha taciuto per
convenienza davanti alle azioni più scellerate, ha privilegiato un
posto al sole per sé rispetto alle esigenze della collettività. Forse
proprio per questo bisogna riconoscergli, nel momento della caduta, i
meriti e le doti che ha saputo mettere in campo e che i suoi lacchè ed
emulatori nemmeno si sognano di avere. Doti di tolleranza, di
pacatezza, capacità di smorzare i conflitti sociali, rifiuto della
politica intesa come esasperazione degli animi, come insulto,
invettiva, respingimento. Magnanimità nei confronti dei nemici e degli
avversari. E perché no, anche radicate convinzioni democratiche.
Iorio, a differenza di molti suoi colleghi del resto d’Italia, non ha
mai fatto ostentazione di lussi, né ha fatto sfoggio di privilegi o di
simboli del potere. Anzi, sul basso profilo ha costruito parte della
popolarità, e di questo gliene va dato atto. Alle spiagge caraibiche ha
sempre preferito quelle di Campomarino, agli yacht pullulanti di belle
donne ha preferito le colline nostrane oppure un ruspante camper con il
quale – così ha raccontato – andare in giro per il mondo anonimamente,
con la famiglia.
Ha sempre premiato gli amici, ma non ha infierito sugli avversari.
Già, gli avversari. Malgrado un intenso sforzo di memoria è
difficile individuarne qualcuno, specie nelle file della controparte
politica, eccezion fatta per il troppo debole e il troppo solo ex sindaco
di Termoli, Vincenzo Greco. Semmai qualche oppositore si è fatto
vivo nelle sue fila. Ma mai a viso aperto. Sono sempre stati insieme
complici e antagonisti, rivali all’interno di un perimetro di connivenza.
Viene in mente Remo Di Giandomenico, con il quale c’è stato
all’inizio degli anni Duemila un patto di non belligeranza fondato sulla
spartizione del territorio. Viene in mente Aldo Patriciello,
che a fasi alterne ha provato a scippargli lo scettro del comando salvo
poi scendere a patti nel momento del bisogno e riprendere le distanze in
una fase successiva, come è avvenuto in queste ultime elezioni con la
scelta palese a favore di Frattura. Viene in mente Giuseppe Ciarrapico,
l’editore ciociaro che per lungo tempo ha messo la propria rete mediatica
a sua disposizione per poi accanirsi nei suoi confronti, col supporto di
alcuni mercenari ben prezzolati, in modo scomposto e sguaiato,
inverosimile e controproducente. Poi Ciarrapico se n’è andato dal Molise
e i mercenari si sono rimessi in cammino per rientrare nell’ovile di don
Michele, accolti come il figliol prodigo.
Adesso che il regno è finito, più che Michele Iorio, il problema ce
l’hanno proprio i suoi servili adulatori, i mercenari, i
profittatori, i manovratori e i finti discepoli che hanno campato sulle
spalle della sua prodigalità. Ma non c’è da preoccuparsi per loro: sono
già in marcia verso i lidi del nuovo potere, pronti a offrire servigi, a
garantire fedeltà, e silenzio. E magari antica militanza. Così va la
storia. E va a finire che un regnante come Iorio, mentre si staglia su
questo palcoscenico di squallidi e patetici trasformismi, comincia a
sembrare già un gigante.
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